In questi giorni (tra il quesito proposto dalla prof e una tesina che sto scrivendo per l’esame di teoria della ricerca architettonica) mi sono trovata a riflettere sul rapporto tra “Architettura e natura”.
Ci troviamo in un momento storico in cui le due spesso si trovano a comunicare, senza trovare molti punti d’intesa.
Il rapporto tra architettura e natura è per molti versi indeterminato e ambivalente. È indeterminato perché non è chiaro il meccanismo della mimesi, un processo di prelievo selettivo di parti e di configurazioni per mezzo del quale è possibile trasferire la dimensione morfologica propria di elementi vegetali, di organismi animali e di strutture minerali nell’architettura.
È ambivalente, perché questa imitazione sembrerebbe alludere ad un’affinità amichevole tra il mondo naturale e quello della costruzione architettonica, mentre quest’ultima deve la sua origine alla necessità di proteggere l’uomo dalla natura stessa che spesso è indecifrabile. Un albero può servire per costruire una capanna, ma può anche attirare il fulmine che ucciderà chi ha trovato rifugio sotto i suoi rami.
L’architettura dovrebbe imitare la natura, osservandola, imparando la tecnica dall’osservazione delle sue forme, della sua perfezione, recuperando quasi la concezione rinascimentale in cui ogni forma di arte derivava da quella primitiva suggerita dall’osservazione della forme della natura.
Oggi sembra, invece, che la natura stia imitando l’architettura nella sua forza distruttrice, in un’ottica di mondo alla rovescia, quasi si fosse stancata di subire l’incontrollata azione di “architetti malati di creazione” (Lucine Kroll, Tutto è paesaggio).
Osservare, stupirsi... comprendere… crescere… l’architetto non ha più la pazienza di farlo!
L’uomo attraverso l’architettura costruisce un ordine, riproduce un orientamento, una direzione e mentre compie tutto questo i suoi spazi dovrebbero essere orientati allo spazio che sta occupando, alla natura che sta “contaminando”, immaginandosi come un ospite che chiede di potersi accomodare in casa.
È necessario, quindi progettare una contemporaneità che non si racchiuda nell’immagine di grandi bellezze con conseguenti ancor più grandi devastazioni, quanto piuttosto nel riportare il pensiero architettonico a scala più piccola, a misura di bambino, che possa restituirci luoghi e spazi in cui sia possibile intessere relazioni con il mondo che ci circonda, in un’ottica di scambio reciproco che non termina con la progettazione o con l’intervento concreto ed in cui tutti possiamo riconoscerci.
Luca Zevi propone il modello di una città “salvata dai ragazzini” che, assumendo il bambino come parametro della qualità urbana, ne ridefinisce spazi, modelli e modi di comunicare all’interno della città, per farlo sentire all’interno della “foresta urbana”, padrone della propria città.
L’architettura che imita (o meglio vive) la natura è quella che la osserva con uno sguardo “bambino”, che sa accostarsi alla conoscenza delle cose con la purezza e lo stupore di chi le scopre per la prima volta ed inizia a sperimentarle, per poi definitivamente abitarle e darle un’anima.
Università Mediterranea degli Studi di Reggio Calabria. Facoltà di Architettura. CdL Architettura UE. A.A.2009/2010
Corso di Teroia della Ricerca Architettonica. Prof. Renato Nicolini. Studentessa: MARIA RITA COTRONEI
Munari era un osservatore della natura (come Galileo Galilei), da cui traeva e trasmetteva meraviglia (proprio come Galileo). In Design e comunicazione visiva (Laterza), che raccoglie gli appunti sulla didattica delle forme elaborati per un ciclo di lezioni a Cambridge nel 1967, spiegava così la creatività agli aspiranti designer: “La forma definitiva di questi oggetti ha la naturalezza delle cose prodotte dalla natura stessa: imitazione di sistemi costruttivi e non imitazione delle forme finite, senza capire la struttura che le determina”. Natura, per lui, era anche la rete a rombi dei pollai, che portava a esempio. Forse imparò dalla natura anche a sottrarsi come pochi al narcisismo costitutivo degli artisti.
tratto da: http://www.beppesebaste.com/incontri/bruno_munari.html
Conservare lo spirito dell’infanzia
dentro di sé per tutta la vita
vuol dire conservare
la curiosità di conoscere
il piacere di capire
la voglia di comunicare.
Bruno Munari
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